Carrà aprì un nuovo ciclo nella propria produzione pittorica, di cui Il pino sul mare, realizzato nel 1921, è un'opera chiave. Il quadro è caratterizzato da un'impostazione sobria ed essenziale. Una casa in ardita prospettiva a sinistra e una specie di montagna a destra sono collocate alle spalle del pino, protagonista della composizione anche se decentrato, che si protende lungo e sottile verso la striscia blu del mare.
Sotto il cielo azzurro, striato di bianco, non ci sono presenze umane; solo un panno candido appoggiato su un cavalletto vi allude. Il dipinto esemplifica bene l'evoluzione dello stile del pittore rispetto al periodo metafisico: è venuto meno il gusto per la rappresentazione allegorica, mentre continuano a essere presenti il senso dell'attesa, della sospensione temporale e l'evocazione della solitudine. Ricollegandosi alla tradizione giottesca e più in generale a quella medievale, l'artista imprime agli oggetti dipinti (siano esse figure, cose o paesaggi) la forma più semplice, definendoli con un disegno essenziale per arrivare, secondo le sue stesse parole, a una nuova "rappresentazione mitica della natura".
La composizione è classica, semplicissima, ridotta all'essenziale.
In primo piano una spiaggia sul mare, la facciata di una casa sulla sinistra (di cui si vede solo una piccola parte, fortemente di scorcio, con una porta al primo piano e una finestra al secondo) e, sulla destra, un pino marittimo dal tronco liscio e nudo, piegato dal vento verso il centro, con un ramo monco (potato?) e altri due che sorreggono una chioma sproporzionatamente piccola. In mezzo, tra la casa e il pino, uno stenditoio che pare il cavalletto di un pittore, con un panno bianco, forse una tovaglia, steso ad asciugare; sul terreno, pochi ciuffi d’erba sparsi. Sullo sfondo, un mare liscio e piatto come un lago; e, al di sopra, un cielo bianco e azzurro trasparente, colto nella dolce luminosità del primo mattino; un cielo che evoca il primo canto del Purgatorio dantesco o, anche, certe poesie di Sandro Penna, tutte luce e chiarità mattutina e respiro del mare dell’aria e del sole. Dietro il pino, in secondo piano, si staglia un’isola o, più probabilmente, un promontorio roccioso, con pochi cespi di stentata vegetazione (che richiama il paesaggio nudo e scabro de Il sogno di Gioacchino fra i pastori di Giotto, nella Cappella degli Scrovegni, a Padova). Ma con una stranezza: un profondo scavo nella roccia, entro il quale si apre una porta ampia e bassa, quasi di forma quadrata, sul versante riparato del promontorio, direttamente sull’acqua e proprio di fronte all'osservatore. Un ormeggio nascosto per le imbarcazioni? Un bunker, una casamatta di tipo militare? Impossibile dirlo.
I colori sono chiari, luminosi, tranne il mare (insolitamente scuro) e i tre vani artificiali, i due della casa e quello del promontorio, che non sembrano aperture, quanto piuttosto vie sbarrate e inaccessibili; e, poiché l’occhio dell’osservatore corre istintivamente dalla porta sulla sinistra, alla marina al centro, al versante sottovento del promontorio, sulla destra, ne risulta che il quadro è come diviso, in senso verticale, in tre sezioni fortemente contrastanti: una chiara, in basso; una molto scura, più sottile, al centro (che comprende anche la chioma del pino); ed un’altra, ancora più chiara, in alto.
L’effetto d’insieme è quello d un iper-realismo che sconfina insensibilmente nel surrealismo; di una qualità pittorica che sta a mezza strada fra la semplicità giottesca e l’ingenuità di una pittura infantile (o naïf?); di una cifra espressiva che indugia sorprendentemente fra monumentalità delle forme e minimalismo dei contenuti, poveri e disadorni quanto può esserlo la poetica dell'essenzialità di Montale, non senza un accenno di ironia alla Guido Gozzano - ironia, del resto, sempre affettuosa e partecipe e che non scende dall’esterno, dall’occhio che osserva, ma che sembra scaturire dalle cose stesse, dalla loro interiorità.
Ci troviamo, pertanto, davanti a un paesaggio di tipo metafisico, ma di una qualità metafisica che prelude alla riscoperta dei volumi corposi, delle forme nette e squadrate (cubiste?) che richiamano la grande stagione dell’arte italiana tardo-medioevale e del primo Rinascimento. Un paesaggio metafisico che non ha la qualità angosciosa di quelli di De Chirico; dove è presente, sì, il senso dell’attesa di qualcosa che deve accadere (suggerito soprattutto da quel panno steso ad asciugare, nonostante l’assoluta mancanza di figure umane), ma non qualche cosa di allarmante e di potenzialmente pericoloso.
Il mistero incombe, ma con leggerezza, con grazia, quasi con soavità; incombe, ma non opprime e, soprattutto, non angoscia né spaventa. Si direbbe un mistero domestico e quotidiano, un mistero col quale si è abituati a convivere; un mistero, per così dire (ci si perdoni l’ossimoro) familiare e tranquillamente accettato.